Friday, September 10, 2004
in una settimana avrò sentito almeno 10 volte il nuovo disco dei libertines. ogni volta mi piace un po' di più ma nel contempo continua ad esserci qualcosa che mi sfugge. e allora lo riascolto una volta ancora. il loro album di debutto del 2002, up the bracket, è qualcosa di forse irragiungibile: geniale, semplice, diretto, arrabbiato e romantico assieme, uno dei dischi più significativi degli anni 2000. e i libertines sono fra i pochissimi che - su questo non c'è dubbio - non ci fanno, ma davvero ci sono. in due anni hanno percorso tutto il manuale del rock&roll e non per calcolo e non da poseurs quanto invece per un inconsapevole, inevitabile ripetersi di una storia già scritta. successo improvviso, droga, arresti, litigi, riappacificazioni, concerti improvvisati nei posti più impensabili, come ha raccontato betty clarke in questo straordinario articolo sul guardian. se aggiungo che la copertina del nuovo disco ritrae pete doherty e carl barat, le due anime del gruppo, la sera del freedom gig dopo che il primo dei due era appena uscito di prigione forse cominciate a farvi un'idea anche voi: è la storia più incredibile che il rock ci abbia portato negli ultimi decenni. tutto questo è necessario per capire il nuovo disco, che colpisce per quanto è autobiografico, come ha ben scritto (tra gli altri) maddy costa nella sua recensione sempre sul guardian. è la storia quasi epica dei due frontmen, uniti da una strana eppure così familiare relazione di amore e odio, trasformata in nuovi piccoli gioielli tra garage rock, punk e pop, anche se tutti più tristi, sconsolati di quelli del primo album. quasi che the libertines fosse l'ultimo possibile atto di una band ormai prossima all'autodistruzione ma talmente ispirata da saper trasformare - quasi senza sforzo - l'autoanalisi in grandi canzoni. è questa decisione ancora una volta dall'apparenza involontaria, inevitabile, di mettersi a nudo che spiazza specie nei primi ascolti del disco. ma forse è anche il suo grandissimo merito.